Pubblicato su politicadomani Num 86 - Dicembre 2008

Change
Obama come Roosvelt

Chi prevede che l’attuale congiuntura economica segnerà negativamente la presidenza di Obama, sbaglia, è l’opinione di un economista americano

di Maria Mezzina

Occorrono i voti di 270 Grandi elettori per vincere la presidenza degli Stati Uniti. Obama ne ha 365, McCain 173. La vittoria di Obama e quella del Partito Democratico sono state schiaccianti: i democratici sono in Senato con 58 senatori contro i 40 dei repubblicani; alla Camera la proporzione è di 255 contro 175 a favore dei democratici. I democratici hanno conquistato seggi in 28 Stati (+58 seggi, + 7 solo nello stato di New York) e ne hanno persi in 2 (-6 seggi, - 5 solo nel Texas). Agli stati popolosi del Nord Est e alla California, tradizionalmente democratici, si sono aggiunti Stati come il Nevada, l’Oregon, il New Mexico, il Wisconsin, tradizionalmente repubblicani. Perfino la Florida si è ammantata di un velo di azzurro.
“Change” è stata la parola d’ordine, “cambiare”. Otto anni di Presidenza Bush, la peggiore degli Stati Uniti dal dopoguerra, hanno trascinato il Paese in un tunnel di cui non si vede l’uscita: in politica estera, in economia, in politica interna. Una ubriacatura di onnipotenza che ha portato gli States verso la più sanguinosa guerra dopo il Vietnam, e la più grave recessione dopo quella del ’29. Una guerra e una recessione in cui, con gli Stati Uniti, è stato coinvolto l’intero mondo occidentale.
Ora che la sbornia è finita si raccolgono i cocci e il mondo intero guarda al nuovo Presidente con fiducia e speranza.
Non abbiamo ancora toccato il fondo, e la situazione è talmente compromessa che sarà difficile pensare ad una sensibile ripresa entro il 2012, quando Obama dovrà presentarsi al giudizio degli americani per un secondo mandato. Tuttavia non tutto è negativo. Dalle pagine del prestigioso Financial Times David Blake azzarda una previsione: Obama seguirà le orme di Roosvelt più che quelle di Clinton, perché, come Roosvelt nel 1936, egli eredita una crisi da recessione e deflazione; Clinton aveva ereditato una crisi da inflazione.
Per ridurre l’inflazione, spiega Blake, un governo deve  adottare politiche odiose di contenimento contenimento della spesa, di riduzione dei bilanci, di aumento della disoccupazione. Per curare invece la deflazione occorrono rimedi molto più gradevoli: taglio dei tassi di interesse, maggiori spese, riduzione delle tasse. Naturalmente non è affatto automatico che queste “gradevoli” misure possano far superare la crisi: il rapido diffondersi dei venti di recessione su tutto il pianeta porteranno con sé la chiusura di un gran numero di imprese e il rapido aumento della disoccupazione a livello mondiale: una eventualità che se non è controllata provocherebbe ulteriore crolli e si ritorcerebbe contro tutti, inclusi gli Stati Uniti. Il pericolo più grande sarebbe allora chiudersi, ritirarsi nei propri confini, a difesa dell’esistente e del poco rimasto. La capacità di Obama di investire ingenti ricchezze in processi che creando lavoro rimettono in piedi il motore dell’economian dipende dalla capacità di trovare queste ricchezze là dove sono state accumulate a dismisura, nei forzieri dei manager, nei conti degli speculatori finanziari. Una più equa distribuzione della ricchezza è la chiave, ma per arrivarci occorre una svolta radicale in chiave etica, una assunzione senza riserve di responsabilità sociale.

 

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